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È tempo di una riflessione seria e strutturata sulle politiche del lavoro, a partire dal nostro territorio. La crescente difficoltà nel reperire manodopera non deve spingerci a imboccare la via più rapida come il ricorso sistematico alla manodopera straniera e ai subappalti a cascata. Occorre prendere in considerazione la situazione reale del mercato del lavoro regionale. Solo nel 2023, in Friuli-Venezia Giulia, le crisi industriali hanno coinvolto circa 15.000 lavoratori in 123 aziende, di cui ben 73 nel comparto metalmeccanico. Nello stesso anno, 35.651 persone hanno percepito la NASpI. A marzo 2025, le ore autorizzate di cassa integrazione hanno superato il milione: un dato fluttuante ma purtroppo in costante aumento. E accanto a questi numeri, c’è il dato preoccupante: dei 27.000 giovani NEET, ragazzi che non studiano e non lavorano.
I numeri che parlano chiaro: prima di guardare altrove, dobbiamo guardare a casa nostra. In parallelo, non possiamo ignorare le conseguenze sociali delle scelte imprenditoriali che stanno erodendo i diritti dei lavoratori e trasformando radicalmente la composizione sociale delle nostre comunità. Il caso di Monfalcone è emblematico: una città la cui identità è stata profondamente alterata da un modello produttivo fortemente sbilanciato sull’impiego di manodopera straniera nel settore navalmeccanico.
Dobbiamo ripensare tali modelli, con una visione che coniughi competitività e rispetto del territorio e diritti e dignità di chi lavora. La sostenibilità difatti non è solo quella ambientale, ma anche quella sociale. In un Paese avanzato, non possiamo accettare che intere comunità siano sacrificate sull’altare delle esigenze produttive di pochi. Il ritorno economico delle grandi aziende è importante per il sistema Italia, ma non può più avvenire a discapito dei territori.
Prima di rivolgerci sistematicamente all’estero per coprire il fabbisogno di lavoro, è prioritario investire nelle competenze presenti nel nostro Paese e nella nostra Regione. Serve un sistema più solido e capillare di formazione e ricollocamento, capace di accompagnare i lavoratori nelle transizioni tra settori e aziende. Servono sì Academy e percorsi formativi verticalizzati, ma sul nostro territorio, pensati per coinvolgere i giovani inattivi, ma anche chi ha perso il lavoro o rischia di perderlo. Necessario anche un grande investimento in tecnologia applicata al lavoro: per migliorare le condizioni nei settori più usuranti, per aumentare la sicurezza, e per rendere più attrattiva e qualificante la dimensione industriale anche agli occhi delle nuove generazioni. È inaccettabile che la transizione digitale venga vissuta solo come una minaccia nei comparti impiegatizi, mentre nelle aree produttive si continua a non investire ancora abbastanza nel potenziale delle nuove tecnologie nel ridurre la fatica e i rischi. Solo mettendo al centro il valore del lavoro e dei lavoratori –, con le loro competenze, la loro dignità – possiamo costruire un’economia davvero sostenibile.
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